Ero nel giusto, quando immaginavo
di non metterci molto a scoprire una nuova e provvida,
misurata quiete, ripiegando in questo baluardo
a nord della città. Un tempo, su quest’ultimo tratto
di coltivata pianura a occidente del Tevere,
c’era ai piedi del Soratte un bosco
consacrato a una dea compassionevole con i malati;
le Muse se ne stavano sul piccolo, eppur temuto monte
il cui tremendo profilo si rivela non appena gli giri intorno;
mentre il forte e scuro dio del fiume
pigramente si prestava, e lo fa ancora, a irrigare la valle.
E ora che risiedo accanto a loro, questi spiriti millenari
non mi scansano più come facevano (con mio
imperfetto rammarico) quando correvo lungo l’autostrada
o cominciavo a venir qui da turista, ansioso confidando
di averli in pugno, come mosche, in un paio di giorni.
Eppure, si direbbero inclini a scordare
la mia vecchia ignoranza, chiedendo la sola ammenda
di narrare quel che m’indusse infine a lasciare la metropoli.
A tale modesto compito
dispongo l’ancor più modesta penna,
sperando questa versione
degna di fare attento un umano almeno, sul pianeta.