Nail Chiodo

Lucus Feroniae

Canto IX

Traduzione dall’originale inglese.

Gli onerosi annunci sono infine registrati:
che siano andati a segno o finiti lontano un miglio,
confido di non aver né venduto né comprato
articoli di fede che non si possano capire.
Ora, sentendomi più leggero, rifletterò
sul carisma di Kerry, e senza aggravare gli enigmi.

Donna, artista, mistica: quando la conobbi,
era un triplice germoglio, con un tocco
di naturale gentilezza e una vena comica.
La Terra su cui lei era aveva appena cominciato
la sua diciassettesima orbita intorno al Sole,
mentre la Luna – le cui fasi dettano il ritmo
del calare e crescere degli umori dalle viscere,
del sangue uterino il flusso e riflusso – le svelava
il suo intero volto per la duecentesima volta:
senza alcun segno d’impazienza, suggeriva
che era giunto il momento. E lei sbocciò,
con un sorriso in cui fioriva una speciale promessa
(proprio per me!): una benedizione simile a un tuono,
che innalzò la mia visione alle stelle.

Quando ci conoscemmo, lei si stava sperimentando
come poetessa magnetica («… Sposa il messaggero
che porta l’oscura luce || E lo sferzante moto
entro il suo petto || Che fa ardere quel che resta
del filtrato chiaro di luna || Respingendo il meglio…»),
mentre io scommettevo piuttosto sulla pittura e le arti visive,
quali mezzi per trasmettere le impressioni più profonde
di cui eran permeati i miei giorni. Quando
c’incontrammo ancora – molti, molti anni dopo –,
lei annotò che era curioso che ognuno di noi
si fosse dedicato all’iniziale mestiere dell’altro:
io non avevo scambiato il mio pennello con la sua penna,
e lei non aveva lasciato bianca la pagina per imbrattare
una tela, eppure il comune perseguire un linguaggio veritiero
ci aveva indotti a rivedere i nostri progetti artistici.
La triste verità, riguardante il modo in cui si stava evolvendo
il mondo, l’incontenibile, crescente marea della mediocrità
che istupidiva tutto ciò che si trovava sul suo cammino,
ci aveva costretti a scartare le nostre previste professioni
– l’architettura, nel suo caso, e la regia cinematografica
nel mio – a favore d’altre, indipendenti dai mercati
che rifornivano le abbrutite masse da loro stessi create.
Non potevo pensare a niente di più sgradevole
dell’organizzare pacchiane o svenevoli mises en scènes
per la feccia dell’umanità, e il colpo finale alla mia vanità
mi fece capire che era tempo che imparassi a scrivere.
Benché fosse improbabile che venissi pubblicato
e prendessi posto nelle catene di negozi accanto alla robaccia,
per lo meno avrei potuto aspirare a mettere nero su bianco
i miei valori, i miei gusti, le mie reazioni: che tu possa marcire,
nuova mirabile discarica, con tutti i tuoi balordi congegni;
io avrò cari i miei affetti, e tu creperai!

Dei guai di Kerry con i clan dei grattacielinari
– se mai ve ne furono – non so niente; venni a sapere
che aveva cambiato professione, che le sue idee
avevano preso il volo alla ricerca dell’origine della prospettiva
nell’arte cristiana, e il fatto che essa segretamente fosse
nel cuore di Giotto le fece usare il suo per portarla alla luce:
un approccio innovativo, che spiega la giocosa pretesa
della ragazza di essere la più grande storica d’arte del mondo.

Giotto fu, ai suoi tempi, l’araldo di una nuova visione
e di un nuovo stile, che distolse l’occhio occidentale
dall’ipnotico sguardo delle immobili icone bizantine,
rendendolo libero di danzare ancora, come nell’epoca classica,
su superfici modellate da colore e luce riflessa;
egli riaffermò il senso della condizione umana
con l’accresciuta complessità dei motivi
tratti dalla grande esperienza spirituale del cristianesimo;
alle preziose e dispersive tendenze gotiche
egli contrappose le rinnovate esigenze di ciò che è essenziale—
riportò sul proscenio la prospettiva lineare
che era stata appiattita a partire dalla fine dell’impero romano.
Ma, come vi direbbe la mistica Kerry, niente è casuale.

Andrebbe oltre l’intento di queste memorie in versi
dare più d’uno sguardo al lieto universo
che il suo metodo melodrammatico dischiude.
La piega imprevista degli eventi, l’una dopo l’altra,
coglie di sorpresa ogni volta che una metaforica cornea
mette a fuoco una maggiore profondità simbolica.
Allora, le cinque stigmate di Francesco in un celebre affresco
– Kerry le chiama Karl, Groucho, Chico, Harpo e Zeppo,
in onore dei “Giullari di Dio”, così il santo si riferiva
ai suoi seguaci – sono l’inizio e la fine di altrettante maniere
di guardare, ideali empatiche ferite destinate a suppurare
se prontamente non medicate e viste nella giusta luce.

Quanto a me, mi son sempre chiesto chi stia davvero fissando
Cristo mentre guarda dritto attraverso il volto di Giuda
nel pannello della cappella dell’Arena. Se si ponesse,
per così dire, un bisturi teorico precisamente davanti
ai Suoi occhi, la vista dell’orizzonte nascosto
che quindi si aprirebbe coinciderebbe in quel momento
con il punto di fuga, rivelando la linea invisibile
che in realtà ci strappa – quasi fossimo pesci –
al nostro fantasticare e prendendoci per il bavero
o le branchie ci trascina entro il dipinto, fino
all’aleph del bacio mortale, ove noi si diventa Giuda;
ove Gesù, trafitto, scruta dentro di noi.

Se invece siamo noi i figli, le figlie dell’Uomo
sui quali l’infame sta per sbrodolare, c’è ancora all’opera
in quell’istante la stessa, non comune sequenza temporale:
l’originario tradimento di duemila anni fa,
la rappresentazione che ne fece Giotto dodici secoli dopo,
la conoscenza dell’episodio biblico fatta nel corso
della nostra vita e l’attuale evento epifanico
messo a segno dalla retta ortogonale, lungo la quale
penetreremmo nell’infinito; il risultato,
comunque lo guardiate, è mirabile.

Prologo