Nail Chiodo

Lucus Feroniae

Canto VII

Traduzione dall’originale inglese.

“… L’animale che potrebbe somigliarmi di più
è la spugna, perché qualsiasi cosa possa aver fatto
o non fatto nel corso della vita, ho assorbito
fino all’ultima goccia ogni apparente forma
di conoscenza che inondò la mia esistenza.
La filosofia mi prese e mi tenne in suo potere,
le prodigiose correnti del vecchio e nuovo pensiero
audacemente mi portarono di qua e di là
nella biblioteca. Se si eccettua la proctologia,
che non fece mai per me, ho letto
intorno a ogni curioso argomento
in cui mi sono imbattuto, attento
a colmare le lacune della mia formazione
e i punti deboli della mia visione del mondo.
Tuttavia, quante più tessere inserivo,
tanto più non riuscivo a credere
che si possa essere così spaventosamente ignoranti,
soprattutto se si sa come ma non cosa leggere.

Mi sono sempre sentito simile a un perdente,
e la poesia è il più frainteso di tutti i generi letterari:
per farne la conoscenza, sembra
che si debba aver frequentato un’accademia gesuitica
o essersi uniti a qualche setta d’iniziati,
perché le buone parole non sono adatte a esser imparate
a pappagallo, tra autorevoli campanelle di scuola;
entrare nella grande poesia è entrare in un dominio
da cui infine si esce più fedeli a sé stessi. Inoltre,
la poesia tiene in vita la proclamante voce
anche quando sembra che non ci sia più niente
da proclamare. Perciò i sedicenti intenditori
e i presunti intellettuali – che essenzialmente
non la conoscono – sono inutili anche quando
si tratta di leggere la Bibbia intelligentemente:
poiché altro non fanno, dopo tutto,
che rifiutare la stessa pseudo-letterale
interpretazione delle figure del discorso
che ha indotto i rozzi letteralisti a dare i numeri.
Ne consegue inevitabilmente che,
per interpretare come si deve le antiche profezie,
o semplicemente per non esserne ingannati,
occorre aver letto versi moderni.

Aver avuto la fortuna di leggere poesie,
e capirne il senso profondo, è in ogni caso
un bel vantaggio. Si sarebbe anche potuto
sguainare la penna e scriverne qualcuna da giovani,
o di quando in quando provarsi in qualche imitazione,
senza dover chiamare un’ambulanza.
Ma pensare di fare dello scriverle un’occupazione
da adulti – se si è avuta scelta al riguardo –
è una pericolosa illusione, che indurrebbe
a invocare senza indugio la camicia di forza.
Il lamento dei menestrelli medievali,
carmina non dant panem, è ancora attuale,
e c’è per questo un segreto motivo.

Devo ancora incontrare qualcuno che non lo sappia:
vivere di poesia è praticamente impossibile,
e questo rivela quale sia il posto dell’arte
nella cultura e nella società. Professioni
che godono di così cattiva fama
sono tabù per la gente. Quella del bardo è malvista,
anche perché incomparabilmente difficile
per il cuore e la mente di quanti la praticano,
il tasso di suicidio e l’aspettativa di vita dei quali
sono rispettivamente più alto e più basso
di quelli di chi fa un altro lavoro intellettuale.
Il dizionario – per definizione, la “Bibbia dei poeti” –
è, in questo senso, il più pericoloso fra tutti i libri
che stanno in giro, primato che potrebbe passare
per divertente, dato che il vocabolario
è uno dei libri più ubiquitari, che tende a favorire
felici espressioni verbali, dalle numerose e svariate
applicazioni, e ne fanno regolarmente uso
persino i bambini delle elementari.
Ma il lavoro del poeta, se lui-lei non è un semplice ubriacone,
è di battersi contro il fascino delle parole
per lacerare la stoffa della rappresentazione
che esse incessantemente tessono, e ritrovare in soffitta
indizi dell’originario Mistero celato dalla tessitura.

È ora di parlare della mia limitata esperienza
del regno dei profondi misteri, avvicinandoci
a strane, quasi imbarazzanti parti della mia storia.
Ci sono state diverse visioni straordinarie,
e di due tipi. Facevano parte del primo
quelle che si potrebbero chiamare “visioni
parallattiche”: proiezioni della coscienza
fuori del corpo e, per trasposizione, nella mente
di persone che mi stavano di fronte,
i cui pensieri potevo leggere chiaramente,
o – come le circostanze m’inducevano a credere –
erano tali da essere tranquillamente presumibili.
Se enfatizzo l’aspetto empatico del processo,
è perché si tratta del solo elemento comune
di cui dispongo per descrivere l’inizio,
o la catalisi, di ciò che poi sarebbe avvenuto,
e che partecipava ampiamente del divino.

Immaginate di sentire il costante progredire
del Tempo attraverso ogni singolo atomo ed evento,
senza che casuali distrazioni alterino la sensazione
e riducano in frammenti ciò che inesorabilmente
continua a presentarsi come un intero. In pratica,
immaginate di diventare tangibilmente tutt’uno
con il continuum spazio-temporale,
e che gli indizi dell’immortalità dell’anima
prendano il sopravvento su ogni dubbio
o esitazione, per la forza che lega tra loro
tutti i fenomeni. Quando l’estatica passeggiata
dell’anima (o dello spirito, o della mente,
ché distinguerli è proprio irritante)
finì, per un colpo di timone, ti restò
l’indelebile impressione che ogni cosa
che accadeva fosse inevitabile, preordinata
nei minimi dettagli, e che inevitabilmente
una quantità equivalente di acume critico
fosse prerogativa di ben pochi uomini e donne;
concetti il cui valore euristico è nullo, e che pure
di per sé rappresentano una bella conquista.

Ma che dire della pena, del dolore, della perdita,
e di tutta quella congrega di dèmoni che fomenta
quanto c’è di più esecrabile tra noi? I satori
appena descritti prescindevano dallo scompiglio
che essi creano nelle nostre esistenze,
mentre il vero tormento di cui sono autori
ha a che fare con il secondo tipo di apparizioni
con cui ho fatto i conti, che sono anche il motivo
per cui mi sono imbarcato in questa descrizione
della mia deontologia poetica, al cui centro
c’è un votivo impulso a testimoniare…”

Canto VIII