Nail Chiodo

Lucus Feroniae

Canto IV

Traduzione dall’originale inglese.

Benché fossimo prodotti del nostro Paese
e della nostra generazione, in cerca d’identità
e vocazioni decisive, noi cinque del Midwest
trafficavamo con merci d’ogni genere, origine
e implicazione: Tom faceva le sue estatiche imitazioni
di Aretha Franklin, e piroette in onore
di Earl “the Pearl” Monroe; Fred m’introdusse,
passo dopo passo, al teorema di Gödel,
e diventò il proto-hacker ante litteram
della nazione; Kerry rimuginava sui testi teatrali
di Harold Pinter: fu una dei primi – a ovest
del Mississippi – ad averne notizia; mentre Scott,
più semplicemente, per togliere di mezzo l’inverno
invocava Gandhi e Martin Luther King.

Quanto a me, allora mi ritenevo americano,
e finché vivo continuerò a farlo, anche se sarebbe
più esatto descrivermi come un singolare ibrido
con solide radici sia in Europa sia negli States,
che risparmierà al lettore il tedioso racconto
del suo andare-e-venire attraverso i mari.
Non essendo uno di quegli animali
che mangiano, scopano, sparano e spariscono
(sebbene ce ne siano molti in entrambi i continenti),
le raffinatezze del Vecchio Mondo si rivelarono utili
a procurarmi la stima dei miei compagni.
Questo epigramma, che avevo trovato in Proust,
accrebbe nel gruppo la mia reputazione d’intelligente,
e ha continuato a sconcertarmi, fino ad oggi:
«Sperare senza speranza, che sarebbe cosa saggia,
è impossibile». Parole minacciose, che potrebbero
esser giunte direttamente dalla Sibilla
e additare il senso tragico delle storie
di tipi come noi, che non hanno altra scelta
se non quella di seguire il proprio palato
in un mondo che è sempre più arduo mandar giù.

Tuttavia, in quegli anni il futuro appariva roseo,
rispetto ad oggi. Gandhi, Hammarskjöld
(i cui Markings mi avevano profondamente segnato),
JFK—tutto era oscuramente svanito; in una famosa
primavera, accadde lo stesso al reverendo King
e a Robert Kennedy; ma Allende non era ancora
stato eletto, e il Papa non se ne stava sul balcone
accanto a Pinochet. Invero, ho sempre trovato
sconcertanti non tanto i colpi assestati per se
all’equo processo, quanto le puntualmente molli,
circostanziate reazioni di persone di cosiddetta cultura
alle svolte più drammatiche: veritieri non sequitur
che i media schizoidi rispecchiano, ma la cui origine
è nella fondamentale schizo-frenia della classe media,
intrappolata tra i vivi e i morti.

A questo punto, mi piacerebbe dire
“Ma io divago!” e cambiar discorso,
lasciando imprecisata la delicata questione
della provenienza socio-culturale. Poiché
eravamo anche noi ragazzi della classe media,
soggetti ai medesimi conflitti d’interesse
e vittime dello stesso Io diviso, non diversamente
dal nostro prossimo; dunque come spiegare
l’origine delle particolarità che formavano la base
delle nostre affinità elettive senza far riferimento
ai genitori reali contro cui avremmo dovuto essere
in rivolta, ma che in realtà avevano appena cominciato
a esercitare la loro influenza tramite noi,
mediante i nostri modelli di comportamento?

Probabilmente, il tratto più profondo
ereditato dai genitori, e comune a noi tutti,
era il disprezzo per le arrampicate sociali:
un’indole orgogliosa c’impediva di aspirare
a essere più ricchi, in senso materiale,
o socialmente più in vista di quanto già non fossimo;
e naturalmente riduceva assai la probabilità
che si diventasse dei “vincenti”. In verità,
avevamo sempre avuto a disposizione
tutto ciò di cui avevamo davvero bisogno,
e padri e madri erano tutt’altro che decisi
a farci diventare dei successi sostitutivi
solo a causa di qualche loro vecchia paura
o risentimento, con atti le cui conseguenze
sarebbero state imprevedibili.
La libertà di cui ci nutrivano era autentica,
e perciò necessariamente stutturata—
integrità morale, onestà intellettuale,
e una fondamentalmente comprensiva affabilità,
si ergevano come i tre pilastri della nostra cultura liberale.

Essere del tutto all’altezza di tali qualità,
mettendo quasi sullo stesso piano il proprio
e l’altrui interesse: un garbato atteggiamento
che ha contribuito sia a far durare gli imperi
sia ai minimi, ben congegnati sodalizi.
Che si sia presa per normale questa ingenuità,
dice non solo che avevamo ancora parecchio
da imparare, ma anche dell’antica saggezza
che imperterrita scorreva nelle vene
e della più ampia struttura culturale entro la quale
tutti noi avremmo incontrato il nostro destino.

È scesa di nuovo la sera in questa campagna
ove un tempo sostarono gli elefanti di Annibale.
Il mio libro sostiene che se il suo intento
non fosse stato disprezzato da faziosi oligarchi
nella sua Cartagine, egli avrebbe preso Roma
senza alcun problema. Il che dimostra – vero? –
quanto stupidi siano gli oligarchi. E quanto puerile
la vanità della società che a loro si affida.

Canto V