Nail Chiodo

Lucus Feroniae

Canto III

Traduzione dall’originale inglese.

Dunque tornerò a ciò che è piccolo e personale,
e la mia attenzione arriverà fino al muro
che divide la cerchia dei miei intimi dagli altri,
troppo stonati, selezionati o numerosi
per essere annoverati tra di noi; così
esordirò con quel che si potrebbe dire
il “nòcciolo della storia” dei miei migliori amici,
lasciando che l’apertura del compasso cominci da lì.

Aver cari i più cari è un impulso naturale
– chiamatelo trasporto, esprit-de-corps
o istintivo richiamo – che non solo i gentlemen
ma anche le canaglie si trovano a provare;
e potrebbe esser questo uno dei motivi
per cui Cristo esortava chiunque
a fare un passo avanti e provare a capire,
a pazientare, e persino ad amare
quelli prima facie ripugnanti—
un compito formidabile per l’immaginazione,
un po’ come togliersi la maschera dell’ego,
sfidare ogni comoda certezza, implorare
d’esser fatti a pezzi dalle Furie… cose
non proprio adatte a qualsiasi cretino.

Eppure ci son quelli che le Parche
han reso capaci di avvertire il primato
e l’urgenza di tali vicende, non solo
per sé stessi ma per tutti gli esseri umani:
in modo che si possa ancora dire
che non siamo una razza di codardi innanzi a Dio,
benché molti continuino a esser pavidi, pusillanimi
e anche perfidi nei confronti dei loro simili.

Un destino così mortificante non lo si può suggellare
se non dopo che “le ombre dei muri della prigione”
si son serrate intorno al ragazzo ormai cresciuto,
non quando la sua spavalderia è ancora adolescente
e sempre giovanili le intense penombre
che chiamano alla vita. Eppure c’è un tempo
precedente – quando si sta imparando a leggere,
scrivere, enunciare opinioni personali, e questo
coincide con la naturale, pubere esigenza
di ribellarsi ai genitori e/o ad altri controllori,
e aiuta a dar voce alle proprie aspirazioni
malgrado qualsiasi costrizione –, quando nascono
le prime, vitali e cruciali amicizie tra ragazzi.

La mia personale esperienza al riguardo
non è del tutto normale, poiché son nato
da una coppia di larghe vedute, che
mi ha facilitato ulteriormente la vita divorziando,
sicché ho potuto far più o meno le cose
a modo mio senza offendere alcuno
o recare gran disturbo. Anche nel deviare
fui in qualche modo precoce, e potrei dire
che per me non fu minimamente orribile
mettere uno specchio sulle scarpe,
accurato periscopio sotto la gonna delle ragazze,
anche se questo mi fece bocciare in condotta
alle elementari. Per quanto riguarda la ribellione,
mi convinsi che prima avveniva meglio era,
da quando osservai bene la foto di classe della prima:
ognuno, tranne quell’esagitato, turbolento ragazzo
– mi sembra si chiamasse Steven – e inclusa
l’insegnante, signora Tal-dei-tali,
fa una ben magra figura, mentre Steven
sembra illuminato da qualche superiore conoscenza,
il volto al centro dell’ultima fila come una meteora,
e radioso sorriso sparso su noi tutti.
Cosa gli sia capitato in seguito, non so;
sembra piuttosto probabile che possa esser finito
malamente, com’è vero che cadono le stelle cadenti;
ma, per quel che ne so, non c’è scintilla di talento
che non ne abbia lo splendore.

I primi amici ed io eravamo adolescenti
alla metà degli anni Sessanta, quando
c’era una gran aria di ribellione tra coloro
che avevano dieci anni più di noi,
già storditi sgomentati dai test di armi nucleari,
dall’oscuro timore che suscitavano le udienze
di McCarthy, dai documentari voltastomaco
sui campi di concentramento e sulle sempre ardenti,
desertiche Hiroshima e Nagasaki, quando
loro erano ragazzini e noi ancora in fasce.
Anche noi avevamo percepito
alcune di quelle sordide faccende in TV,
ma, essendo assai più giovani, si era più fortunati
quanto a programmazione, più sintonizzati
con la nuova pletora di farse e commediole
per l’infanzia. Crescemmo formati essenzialmente
dall’influenza d’ironiche descrizioni
della vita della classe media, sapendo a mala pena
delle polemiche che avevano coinvolto, ad esempio,
il rock-and-roll; quando raggiungemmo il liceo,
tendevamo a crederci pronti a trionfare per puro candore,
e ogni cosa intorno sembrava confermarlo.

Aristotele dice che i giovani s’ingannano
credendo che l’amicizia non si basi
su un istinto egoistico, e che in verità
ogni relazione degna di questo nobile nome
è anche un investimento che serve a favorire
concreti scambi di reciproca utilità.
Sono più che disposto a sottoscrivere
ciò che lo stesso vecchio Ipse al riguardo dixit
con tante parole, dato che i miei amici del cuore
ed io, in quei giorni dorati, non sbagliavamo
eleggendoci l’un l’altro come la maggior ricchezza
che avremmo tanto voluto, in mezzo
alla comune caccia al tesoro. Nella nostra
piccola cricca, ognuno aveva trovato
il suo più vero piacere nella conferma,
che ci si dava l’un l’altro, del sospetto
maturato singolarmente in ognuno di noi
negli ultimi anni dell’infanzia,
e nella “fertilizzazione reciproca”
che sapemmo attuare per arricchire le nostre visioni.

Nonostante i nostri ambienti
fossero in qualche modo diversi,
eravamo arrivati, come segugi,
alla stessa univoca conclusione: un mondo
più giusto avrebbe dovuto essere meritocratico,
con la maggioranza di compagni e adulti
ottusi com’erano, come tanti grumi e occlusioni
da aggirare socialmente in anticipo.
Il sistema educativo riconosceva il diritto al merito
come criterio per l’avanzamento, e in questo senso
sembrava, se non altro, benintenzionato;
eppure non offriva un séguito in quella direzione,
preferendo prospettare un miglioramento materiale
a coloro che intellettualmente restavano indietro.
Che si trattasse di un difetto fatale
che infine avrebbe precipitato il mondo nell’inferno,
andava oltre l’immaginazione nostra e di quasi tutti,
a quel tempo; i “limiti dello sviluppo”1
erano proprio carini, ma non c’era un fottuto modo
per evitarli, mentre niente nel mondo
diventava più tedioso o faticoso per lo spirito
del bigotto schiamazzo dei vitelli grassi al macello.

Tom, Fred, Kerry e Scott erano
– lo dico a costo di sembrare odioso
a chi non abbia provato un sentimento simile –
dei compagni, che alla mia vita adulta
diedero una ragione per vivere oltre i confini
di ciò che altro non è se non meglio che niente.
Grazie a loro, ho scoperto il significato pratico
della vera nobiltà del carattere; dell’abbandono
del banale, ottuso arrancare per il margine,
la danza sul filo del rasoio del pensiero
logico-simbolico d’avanguardia;
del sublime sovrasessuale di talune donne;
di una vigile responsabilità sociale.
Cose trascurabili, niente di più (o di meno)
del manifestarsi di ciò che senza esagerare
può essere detto il divino nell’uomo,
il cloruro di sodio d’ogni sensibilità terra terra.


  1. Club di Roma, 1972

Canto IV