Nail Chiodo

Lucus Feroniae

Canto II

Traduzione dall’originale inglese.

Umanità e Natura sono ai ferri corti,
né l’una né l’altra saranno più le stesse.
Col senno di poi, si fa evidente
che finora entrambe non han fatto che “scherzare”,
dato che anche la più miope delle preveggenze
c’induce a prevedere una serie completa
di eventi prometeici, atti a sconvolgere
i più profondi aspetti della razza e del suo ambiente.
Quanto siamo lontani, invero, dall’esigenza (volendo
una forma sempre meno onerosa di sopravvivenza terrestre)
d’una grande fusione genetica tra animale e vegetale,
una sorta di “ometto verde” prodotto in laboratorio,
in prodigiosa provetta – sebbene dapprima cautamente,
per ragioni etiche –, una chimera in grado di convertire
la luce in qualcosa che per lei sia, almeno in parte,
commestibile? Se Maometto non andrà su Marte,
non andrà forse Marte da Maometto?
Non sarebbe una papa verde più credibile, quando
dal davanzale della sua finestra implora la pace?
E se ebraica la corolla, e Gentile tutt’al più il pistillo,
non vorrà Dio conservare la sua prediletta verza?

Non conviene a chi è privo di distintiva uniforme
ficcare il naso nelle tasche altrui e dire dove si trovi
l’altrui profitto—questo spetta al paradiso;
a noi tocca fare due cose in una, che fan l’Arte
resistente alla tirannia della Natura
senza che soccomba all’Uomo;
benché nessuno abbia mai fatto dei soldi
a un festival, ognuno ha sempre prodigato
generosamente il suo talento.

L’autore non ha mai dubitato
che la penna sia più forte della spada,
benché debba ancora trovare le giuste parole
per dire la carne trita che allegramente
avrebbe fatto di tutti coloro che nella sua vita
cocciutamente si misero di mezzo
(dato che le lame d’erba, al paragone, si direbbero
più adatte agli stronzi). Ma i fiumi d’inchiostro
usciti dalle nostre penne non hanno impedito
che si versasse un oceano di sangue,
e far professione di modestia è indubbiamente opportuno:
venimmo, vedemmo, tentammo con tutta la nostra arte
di conquistare i cuori altrui; immensa la speranza,
mediocre l’esito. Il senso di fallimento che così ci spetta
giunge alfine senza alcuna sorpresa a quelli tra noi
che han lasciato inchinarsi alla stupidità l’intelligenza,
non per mancanza di talento o di migliori argomenti
e neppure della chance di esibirli in parlamento, ma
semplicemente per riguardo all’assoluta sua infinitezza.

Chi finisce in mezzo a uno sciame di locuste
non dovrebbe tentare di metterle a fuoco,
se non vuol cadere come foglia
in uno stato d’ipnosi che distrugga lo spirito
più di quanto esse distruggano i raccolti.
E questo vale per le umane grucce, sebbene
anche tra coloro che lo sanno ci sia disaccordo al riguardo:
quel che per l’uno si fa gamba, per l’altro resta stampella.
C’è chi pretende che non ce ne sia alcuna, mentre altri
sostengono che non ci sia nient’altro. Tra questi due
estremi, la consuetudine di chi, per celare l’orrore,
prova a munire di paraocchi i suoi passi.

Ci si potrebbe giustamente stupire
di quale onore possa esserci in tanto sinistra storia.
Che si sia vissuti per raccontarla,
appare – secondo la sua stessa versione –
proprio irrilevante; persino una memoria da elefante
non potrebbe che riportarci in questa valle,
per quanto tutt’intorno sia intricata e sconnessa la via.
Ah, ci fosse un solo tratto pulito
in questo morente suolo del mondo su cui si muore!

Lo sregolamento dei sensi, dopo che c’è stata
(se mai c’è stata) una fase sistematica,
diventa una quotidiana collera semiautomatica,
tendente più all’abbronzato che al livido.
Un orecchio interno attento al minimo pensiero
è tutto quel che occorre, il più delle volte,
per scorgere senza indugio la dubbia pretesa
che dall’inferno del desiderio potrebbe introdursi,
e rigettarla alla terrena melma
ove può esser certa di trovare il paradiso in pena.

Dunque il vero artista può godere di qualche pace mentale,
con il non trascurabile conforto di una metafora antropologica:
nessuna comunità umana che abbia annoverato
più di cinquecento membri poté evitare di spaccarsi in due.1

Ecco un numero che si può capire, pur essendo esclusi
dalle liste di “Fortune” o di “Forbes”, un limite
per la quantità di persone con cui è lecito sperare
di condividere la stessa opinione, con tutto il rispetto
per i «ventimila amici intimi» del Presidente Ford.
Questo tetto di vetro, né troppo basso né troppo alto,
può essere – a edificio finito – l’unica cosa infrangibile
che resti, capace di tener lontane le orde
dal sancta sanctorum delle nostre personali vite.
Pur senza dirci misantropi o mentire, possiamo
stabilire i termini e piantare qualche paletto
in onore di quell’altra antica deità romana
– il dio Terminus, custode d’ogni vera affinità –,
per segnare i confini del nostro dominio privato
nello spirito—una più appropriata proprietà,
protetta dalla disarmante ruberìa di senso
che continua e continua, inarrestata.


  1. Claude Lévi-Strauss.

Canto III