Nail Chiodo

Lucus Feroniae

Canto I

Traduzione dall’originale inglese.

Già quarant’anni fa, dall’altra parte dell’empio Atlantico,
parecchi giovani della mia generazione
erano inclini a lasciare città o suburbi
per tornare alla terra, in cerca d’un modo di vivere
diverso, spinti da istintivo disgusto per lo spreco
trasudante dai pori di un corpo politico
vittima di consumanti consumi.
Quei “maledetti, figli di puttana, hippie di merda”
(come i rednecks locali preferivano chiamare
i figli dei fiori) furono i primi a sentire il calore
del processo di combustione che proprio in quegli anni
aveva raggiunto il punto critico: allora, per alimentare
l’espansione del sistema industriale mondiale,
venne prodotta venduta e comprata più energia
di quella generata dalla fotosintesi delle piante della terra
e dalle acque. Ormai l’Uomo valeva più del Sole.
E questo fu l’inizio di una fine molto particolare.

In seguito a quel mutamento epocale,
il saccheggio del globo è avanzato a vele spiegate
(sarebbe più esatto dire: a tutto vapore),
e ancor più tangibile, a mio avviso,
delle overdose di radiazioni ultraviolette
che attraversano lo strato sottile dell’atmosfera
e ci raggiungono sulla spiaggia, è sapere –
o, se preferite, sentire a pelle – che anche
entro la nostra società ingrandisce un deserto,
più arido di quelli che invadono dai tropici.
Non vorrei aggiungere al danno la beffa
in questo poema, o abbattere una porta già aperta,
tentando di convincere qualcuno di qualcosa,
ma: «L’umanità intera avrà la sorte che merita».1

A colpire – va pur detto – è che i casi individuali
confermino la regola generale: che epoca
straordinaria da vivere, ma con la sorpresa
che è in pieno svolgimento un’apocalisse
a opera d’uomo, quale nessuno dei nostri progenitori
timorati di Dio, a eccezione forse di Malthus,
ha mai immaginato umanamente possibile!
Non è proprio il tipo di storia che si potrà raccontare
ai nipoti («Quando avevo la tua età, il mondo
aveva appena cominciato ad andare in malora…»),
né una rivelazione che sia facile condividere
con i contemporanei («Uomini chini, su signore
pecorelle, bau-bau, grazie, andate pure a casa…»).
Perché – superfluo dirlo – se per noi
non fosse così difficile comunicare,
non ci troveremmo in tali strettoie.
Inoltre, anche questa difficoltà è opera nostra,
sebbene non sia l’effetto di scelte consapevoli
ma della confusione di voci diverse
che potrebbero parlare a un individuo
ma non a una nazione, a una comunità
ma non al mondo: cosa potranno mai dire,
a una ragazza carina, le spartizioni della Polonia?
cosa, l’iniquità della sovrappopolazione?

Tuttavia, essendo le Bestie che siamo, forse
non c’è da stupirsi se la maggior parte di noi,
minimo, è finita preda di tali equivoci:
tutto ciò che fu alle origini dell’umana creazione
– le nostre ascendenze, natura di scimmie
e cultura da caverne, il terrore primordiale
che umiliò i giganti, i soverchianti diritti
delle famiglie e dei clan, il primitivo impegno
dei possidenti a imporre restrizioni ai servitori –,
tutto è ancora con noi, accanto alla smania di libertà;
mentre quel nuovo tipo di colossi che siamo diventati
non può essere umiliato più d’un esercito di formiche,
o della muffa attecchita su una mezza pagnotta.


  1. Albert Einstein

Canto II