Nail Chiodo

Lucus Feroniae II

V

Traduzione dall’originale inglese.

Proprio come gli scienziati offrirebbero
uno specchio alla Natura, così gli artisti
farebbero del loro pubblico il proprio oggetto.
Per avviarsi, il progetto deve contenere
una promessa di potere, o assicurarsi
di causare avversione sufficiente
a suscitare animosità, che non è il modo
a cui, per destare curiosità,
potrebbe ricorrere un artista che ami la pace,
o almeno non di proposito; ma la storia
l’insegna: un’opera d’arte che davvero
vada oltre quel che ci si aspetta dalle Muse
(dall’Establishment d’ogni tempo e luogo)
può esser certo di provocarne la collera—
neppure gli illustri sono granitici.

Io sono quel che si dice un attempato.
Da quando son nato, il numero di fratelli e sorelle
viventi sul pianeta si è quasi triplicato:
oltre cinque miliardi di nuovi volti
empiono già il padiglione di questo nostro circo.
I mutamenti che hanno apportato,
o che sono occorsi insieme con loro
e continuano a uscire dalla cisterna
degli eventi terrestri, sono
una spaventosa quantità, benché
non sempre si progredisca in termini di qualità.
In particolare, i tentativi di ridurre le ineguaglianze
degli standard minimi di vita si sono inceppati,
hanno sbattuto contro la legge della giungla.

In tale situazione, è facile inciampare
e perdere la palla perché il pubblico è cambiato.
Non si ha più a che fare con quei gruppetti
d’intellettuali che mangiavano la stessa zuppa
e si conoscevano tutti, o sapevano l’uno dell’altro,
fino alla metà del secolo scorso.
Nonostante tutto quel che han detto e fatto,
si può ancora elemosinare qualche arguzia
se mammà dimenticò un bimbo al supermarket:
sì, avrebbe potuto contarli, i suoi figlioli,
ma perché disturbarsi? Oggi,
è essenzialmente da superflui che si vive
e si può sperare di rispecchiare un vivo uditorio
in uno dei suoi aspetti essenziali.

È mutata l’essenza della figura del luminare,
di chi può aver qualcosa da dire
a una parte dell’umanità
nel suo nuovo schieramento.
Tutti coloro che sono nient’altro che comparse
nella farsa globale, quelli che il nostro
unico sistema, nonostante i propri successi,
non può evitare di considerare in eccesso
e lasciar lì, seduti sul proprio sedere,
meritano l’attenzione finora non ottenuta.
Ovviamente, non ho intenzione di alzarmi
e mettermi a parlare di realtà nascoste
di cui so ben poco; però vorrei dire
di quei nascosti tesori che ben conosco,
per aver assistito alla loro accumulazione e sepoltura.

Non ci si può aspettare che i talent scout
dei tempi moderni, che stentano a sfamare
bocche affamate e/o pagano alimenti,
sappiano distinguere la fasulla routine
dall’opera geniale—nel caso improbabile
che vi s’imbattano. Dato che non si può inserirla
in categorie scontate, niente può impedire
che venga malamente etichettata
e posta nello scaffale sbagliato,
sempreché ci sia ancora posto. Può sedere lì
per molti decenni, raccogliendo polvere,
finché la si scopre per caso o per errore
e, ceteris non paribus, un’occhiata la dice
non solo avanti al suo tempo ma anche
meravigliosa e assolutamente schietta.

Per esempio: in un’imprecisata data del futuro,
si scoprirà che una delle grandi “domande
senza risposta” che sono alla base dell’involuzione
della cultura occidentale dell’ultimo quarto
del secolo scorso – cos’hanno in comune
Bach, Beethoven, i Beatles (a parte il fatto
che comincian tutti con la “b”)? – aveva già avuto
sonora risposta all’inizio del declino
nell’oscura band chiamata The Weals1.
Anche molti gruppi assai più rinomati
avevano tentato di estendere la grande sintesi
fra i generi classico e rock, a cui le “quattro persone
in un solo Dio” (come il vecchio protonotario
apostolico monsignor Jim “Nòcciolo” Sullivan
opportunamente definì il divino quartetto)
diedero forma salda; ma essi non riuscirono
ad approfondire il sistema armonico,
il metodo compositivo ipercubico
che Johannes Sebastian, Ludwig
e quelle anime di Liverpool
del tutto dedite alla propria missione
avevano nel sangue. In verità, praticamente
ogni canzone di successo che sia stata scritta
avanza sotto la spinta della stessa felice mescolanza
di afflato melodico e struttura armonica;
però molte non son che colpi di fortuna,
trucchi casualmente di successo
entro repertori ben più modesti.
Solo pochi musicisti son diventati delle star
in virtù di un metodo compositivo—
mi vengono in mente Ventures, Bacharach,
Hendrix, e poi ho un vuoto di memoria.

Questo non è un trattato di musicologia,
semplicemente voglio ribadire che ovviamente
ci son modi di scrivere musica
i cui risultati han sistematico successo,
vie che portano a esultare in un modo
che non denota ciclotimia maniaco-depressiva
o disordini bipolari. Dimenticavo di menzionare
gli artisti di Motown: anche loro sapevano
su cosa puntare nelle loro partiture
per rallegrare e rinvigorire chiunque e ovunque.

The Weals avevano fatto progredire l’analisi
con melodie sviluppate da testi
che gridando denunciavano il massacro,
proprio mentre la grande involuzione,
la catastrofe economica, politica e culturale
cominciava a svelarsi, ad annunciare
l’Età della Paura, dopo che quella dell’Angoscia
aveva ottenuto il suo ultimo trofeo.
Questo umore, quest’ironia, quest’intento
emanano dalle loro canzoni, e pesa
come una maledizione sul destino dell’America
non aver dato loro ascolto
quando si potevano avere maggiori speranze:
non sarebbe stata la prima volta
che l’arte forniva quel che più serviva.

Rassicuratatevi: Dennis2, l’uomo al volante,
ha continuato a coltivare il suo tennis
e a progredire, scrivendo innovative sinfonie,
mentre quasi tutti gli altri se la spassano
con le fusions—quelle dei generi musicali
essendosi dimostrate più facili da intonare
della fusione nucleare. La sua Sinfonia n. 3
è esempio d’un suono articolato in modo unico,
come non ce ne sono nella musica classica
che ho sentito girovagare.
Ascolta tu stesso, segui il link:
e se quel che senti non ti fa scappare,
manda un verso, facci sapere che sei in città.


  1. The Weals si esibirono a New York a Max’s Kansas City, CBGB's, Tramps, e La Mama fra il 1977 e il 1980. I musicisti che hanno fatto parte del gruppo sono: Kevin O’Neal (chitarra), Mark Campo (batteria), Jay Elfinbien (basso), Larry Katz (basso), David Van Tiegham (batteria), Mike Eck (batteria), Mark Batchelor (basso), Dennis McCafferty (voce, chitarra, vibrafono). Il gruppo cambiò il suo nome in The Ushers nel 1980 e continuò ad esibirsi fino al 1989. I musicisti che hanno fatto parte de The Ushers sono: Larry Goldman (basso), David Neskie (batteria), David Kavenaugh (batteria), Mike Derrico (basso, chitarra), Jose Rodrequez (chitarra), Frank Nemith (basso), Dennis McCafferty (voce, chitarra).

  2. Dennis Anderson McCafferty

VI