Nail Chiodo

Lucus Feroniae II

III

Traduzione dall’originale inglese.

Sono grandemente indebitato
con entrambi quegli uomini,
per le adiuvanti mani che mi tesero
nei momenti critici della mia carriera
di scrittore, che a loro deve, e non poco,
se non è stata infedele agli iniziali propositi.

Diventare uno scrittore
non fu la mia inclinazione originaria:
il dominio più fisico, tangibile, delle arti visive
colpì la mia fantasia sin da quando,
a sei anni, ebbi la fortuna di partecipare
a un gioco per ragazzi al St. Louis Art Museum.
Mostrare opere d’arte ai bambini
non gliele farà vedere: si deve trovare il modo
di aprire i loro occhi a ciò che si trovano dinanzi,
guidandone le menti verso le cose
senza interferire – rovinando la sorpresa –
con le loro reazioni. Il gioco in questione
ci riuscì, consentendo ai cuccioli
di camminare (non di correre!)
tanto velocemente quanto potevano
nelle immense, innumerevoli stanze e sale
del grande palazzo in stile Beaux Arts,
al cui ingresso, per far riconoscere gli originali
appesi alle pareti, si distribuivano cartoline.
Mentre si faceva a gara per essere i primi a finire,
come si diventava intimi di alcune di quelle opere!

A dieci anni, sapevo riconoscere a prima vista
lo stile di decine d’artisti del passato e del presente,
e avevo già cominciato la mia personale discesa
agli Inferi del Plagiario – come fa un artista
in via di maturazione –, rubando a un mio pari
un’idea che credevo incomparabile.
Lo restituisco adesso – quel mostro ideale,
perfetto, senza cuciture, insieme spaventoso
e amichevole – al suo creatore, ovunque si trovi,
qualunque cosa sia stata di lui, infine,
dopo quasi mezzo secolo, in una forma
che è da sentire più che da vedere:
che io possa così pagare il mio debito
ed estingere il suo credito.

Senza dubbio, a porre i fondamenti
dell’estetica individuale sono le forme
che s’impara ad amare da giovani;
per questo, le successive scoperte
non riescono quasi mai a commuovere,
neanche lontanamente, in egual misura.
Un artista non deve farsi influenzare troppo
dagli altri, se vuol salvaguardare, in ciò che a lui
o lei, è capitato, una certa dose di originalità.
Da qui l’importanza, specialmente per la mia
e le successive generazioni d’artisti
cresciuti in tempi d’esorbitante informazione,
di una salutare dose d’ignoranza
riguardo al mondo che li circonda, anche
se la sua natura dovrebbe essere stabilita
prima dell’overdose d’ognuno.

Dunque, diciamo che fu per ignoranza
dei meriti dell’attuale arte contemporanea
– Pop, Op, Oltre-il-top, stiamo parlando
dei tardi anni Sessanta, secondo il fuso orario
del Midwest –, e non per una presa di posizione
che potrebbe alimentare una polemica
(de gustibus non est disputandum),
che misi da parte pennelli e cavalletto.
A quel tempo, ero ancora lontano
dall’immaginare di diventare scrittore
di qualcosa che non fosse una sceneggiatura,
per scrivere la quale si può anche essere
quasi illetterati; solo due decadi dopo
cominciai a sospettare d’aver bisogno d’aiuto
per grammatica e sintassi,
in seguito al benevolo silenzio
con cui parte dei miei lettori
aveva accolto il primo manoscritto:
dieci pagine a cui avevo lavorato
per quasi altrettanti anni,
e che rappresentavano il nòcciolo
dei miei supremi-e-maturi
poetico-filosofici assunti.
Un po’ come dire:
«Aveva delle buone intenzioni».

Per fortuna, Michael
è tanto buon fabbro quanto si può esserlo,
il miglior maestro artigiano
da cui un novizio potesse sperare
di veder porre sull’incudine
i propri abbozzi—un vero fratello,
che rapidamente batté col martello
ciò che di maldestro era nei versi.
A quel lavoro e a quelli successivi
Aldo scrisse dei commenti che dimostravano
come avesse, almeno lui,
compreso a cosa tendevo—
di gran lunga il più liberatorio atto d’affetto
e gentilezza di cui avrò mai bisogno,
toccando legno. Grazie, anzitutto,
a questi due fidati amici,
fui capace di proseguire nel mio tentativo
di provvedere una cornice poetico-filosofica
entro la quale le solitarie voci
degli sparsi effettivi dell’esercito regolare
di detective cantanti
potessero di nuovo armonizzarsi
come quando le loro madri li misero al mondo.

Naturalmente, almeno in parte,
sto scherzando. L’interazione
tra chi pratica l’arte poetica e i filosofi,
tra chi produce quegli oggetti linguistici
straordinariamente significativi
e gli amanti della conoscenza,
ha dato molti frutti che pochi han còlto.
Quel che ho fatto, dice Aldo,
è mettere una trappola in cui i lettori
inavvertitamente metton piede: pensi
sia sterco, e te lo trovi incrostato alle scarpe.
Benché per me non sia mai stato uno scopo
intrappolare chicchessia in qualcosa
di meno tenero dell’amorosa sollecitudine,
lui fa bene ad avvisarli
che la loro abituale astuzia
potrebbe farne cadere di colpo la maschera,
qualora dei comodi dubbi
si volgessero nei loro opposti.

Aggiungere, come sto facendo,
costrizioni prosodiche al ritmo della prosa,
fa aumentare la pressione
nella camera di combustione
dell’espressione creativa,
a tal punto che solo le proposizioni
che si cimentano con verità
sia logiche che empiriche
possono sfuggirvi, in una forma che fonde
in un plasma omogeneo poesia e filosofia.
La struttura «si amplia da sé»,
come direbbe Rorty, e un giorno o l’altro
potrebbe includere un’intera scuola di canto
le cui canzoni risonerebbero
da una parte all’altra
di già inviolabili abissi.
Voi sosterrete
che solo la più sfrenata immaginazione
confonderebbe con la realtà un tale pensiero;
eppure il discorso sembra intrecciarsi
con quelle “operazioni di puntamento”
che gli consentono di centrare il bersaglio,
per indirizzarsi direttamente alla gente
e affrontare molti argomenti
non diversamente da un’arringa,
tenendo sempre una prospettiva elevata
che gl’impedisca di cadere
nella volgarità dell’invettiva.
In questo senso, appare squisitamente adatto
a sfiorare con estrema leggerezza
i temi più scabrosi, come si posano gli uccelli
sulla cima degli alberi,
e a venir consegnato alla carta
nell’inchiostro rosso degli ambasciatori.

IV