Fu pressappoco all’inizio della mia disastrosa carriera nel cinema, e cioè una ventina di anni fa, che avvenne il mio primo “incontro ravvicinato” con il Maestro, Federico Fellini. Stavo scendendo Via Veneto – il centro nevralgico di quel vivere allegro e dissoluto che Fellini aveva reso famoso in tutto il mondo con “La Dolce Vita” – quando ad un tratto scorsi proprio lui: il Nostro era seduto a un tavolino all’ aperto di uno dei suoi ritrovi preferiti, il Caffè Doney. Il tumulto che mi invase il cuore facendomi venire le lacrime agli occhi sorprese me non meno della mia compagna di quella passeggiata, K, una bella e brillante collaboratrice di quegli anni. Esitai per il tempo di riprendermi, poi, fatto cenno alla ragazza di seguirmi, puntai diritto al tavolino libero accanto a quello occupato dal Maestro. Era in compagnia di un signore suppergiù della sua età, la cui eleganza di modi e di vestire mi fece immaginare che fosse qualche importante produttore cinematografico. Purtroppo, non appena avevamo preso posto, e prima ancora che io potessi assaporare il privilegio di trovarmi vicino all’uomo che più di ogni altro incarnava i miei ideali artistici e professionali, Fellini e il suo amico si alzarono lentamente e si allontanarono. Ricordo che il Maestro si muoveva zoppicando per via di una gamba ingessata.
In quegli anni piuttosto lontani, pieni di giovanile fiducia nell’amore della ragione mio e degli altri, la mia carriera cinematografica – l’aspirazione a diventare un regista a pieno titolo – fu anch’essa azzoppata, se non stroncata sul nascere, dalla viscosità delle barriere che ostacolavano l’accesso a quella professione ambita e affascinante. Basti dire che in Italia, a quei tempi, era normale definire “giovani principianti” i registi esordienti, sebbene prossimi ai cinquanta, quasi a riparare e a non dar peso agli anni e anni sprecati a girovagare per le anticamere del potere, cosa allora ritenuta praticamente doverosa per gli aspiranti cineasti. Oggigiorno, poiché molti figli dei registi influenti della vecchia generazione, ormai cresciuti, hanno imboccato la strada dei padri, l’età media dei principianti è scesa notevolmente. Purtroppo, però, il livello qualitativo generale del cinema italiano non è quello che potrebbe essere se molto del “sangue giovane” immesso nel sistema non fosse costituito da figli di papà e “vitelloni” del jet-set, per usare un termine appartenente alla tipologia felliniana. Anch’io, del resto, finii con l’ottenere il lavoro di assistente volontario alla regia nella troupe di un vero film solo grazie alla mia possibilità di avvalermi di favori di tipo nepotistico… e fu appunto durante quell’esperienza che ebbe luogo il mio secondo incontro ravvicinato con il Maestro.
Procedevo in un lungo e stretto corridoio completamente deserto dell’edificio di Cinecittà dove si trovavano le salette di montaggio, allorché vidi Fellini sbucare da una porta all’altro capo e dirigersi verso di me. La situazione faceva pensare a uno scontro a fuoco di stile western. Io andavo avanti, domandandomi che cosa sarebbe successo. Proprio al culmine della suspense, quando eravamo ormai a pochi metri di distanza, Fellini improvvisamente si tolse il cappello nero a larghe tese con un gesto ampio, fece un profondo inchino e profferì un affabile, cordiale “Buongiorno!”. Naturalmente fui colto del tutto alla sprovvista dalla stravaganza di quel saluto e riuscii appena a ricambiarlo, nell’incrociarci, con un rispettoso cenno del capo.
Può darsi che il Maestro fosse quel giorno di umore particolarmente cavalleresco e il suo comportamento semplicemente di esagerata cortesia. O forse aveva percepito qualcosa di insolito nel mio portamento - magari senza volere cercavo di darmi un contegno - che l’aveva stuzzicato a reagire con gentile ironia. Comunque le due ipotesi non si escludono e l’episodio, per quanto fuggevole, rimase a lungo un rompicapo per me. Sembrava contenere una velata premonizione del mio avvenire in quel mestiere, la quale, se all’epoca non poteva che sfuggirmi, mi preparò con grande delicatezza per tutto ciò che gli eventi potevano serbarmi.
Travalicherei le intenzioni e i limiti di questo scritto se mi inoltrassi in dettagli nel riferire il prosieguo, l’agonia e la fine della mia carriera di regista, un’avventura che abbraccia oltre dieci anni della mia vita e che sarebbe più opportuno relegare negli annali di una qualche “storia intellettuale nascosta” della nostra epoca. Una volta udii qualcuno citare proprio Fellini il quale avrebbe detto che i registi di cinema andrebbero eliminati ancora in fasce: una boutade che si può facilmente immaginare sua, di chi da solo - per mezzo delle sue dissacrazioni, pur prive di astio e piene di tatto, del clero e dell’aristocrazia - quasi aveva gettato nella guerra civile l’Italia postbellica. Ciò che accadde invece in Italia, come in altri paesi occidentali, negli anni settanta e ottanta, assomigliava assai di più a una strage degli innocenti su scala imperiale: in quegli anni l’Italia, in particolare, dopo essere stata uno dei massimi produttori di film del mondo (seconda solo, credo, all’India e agli Stati Uniti per numero di film a lungo metraggio realizzati annualmente), divenne un paese in cui l’industria cinematografica doveva sostenere una patetica lotta semplicemente per sopravvivere, e quanto vi era di artisticamente valido per poco non scomparve del tutto. Quindi, ai fini di questo articolo, mi accontento di essere un semplice numero nelle statistiche di quel disastro internazionale. Meglio invece procedere alla descrizione del mio ultimo incontro ravvicinato con “Federì”, come i romani erano soliti chiamarlo, incontro che avvenne quando già da alcuni anni avevo totalmente rinunciato a ogni idea di seguirne le orme.
Questa volta le nostre strade si incrociarono, in un grigio mattino, all’inizio di Via del Babuino dalla parte di Piazza del Popolo. Fellini aveva un aspetto un po’ invecchiato e, assorto nei suoi pensieri, mi passò accanto degnandomi appena di uno sguardo distratto. Per lui, naturalmente, non ero che uno di tanti volti sconosciuti. Ma mentre i nostri passi accrescevano la distanza che aveva incominciato a separarci, pensai che questa volta dovevo afferrare l’occasione di dirgli finalmente qualcosa. Così tornai rapidamente indietro e quasi gli urlai: “Mi scusi, ma…”. Mentre mi avvicinavo Fellini rallentò il passo, senza però voltarsi; quando gli fui più vicino mi mostrò un volto provato, irritato e, stringendo il pugno e tendendo il braccio in basso quasi a sottolineare quanto fosse seccato, fece: “Mi dica! Mi dica!”. Non avevo avuto il tempo di pensare che cosa avrei potuto dirgli, ma, grazie al cielo, le parole mi vennero spontanee: “Volevo solo esprimerle la mia gratitudine”. Subito il suo volto si distese in un caldo sorriso di simpatia e mi porse la mano dicendo: “Che pensiero gentile!”. Dopodiché ci separammo, ciascuno con il sentimento di aver dato in qualche modo una ragione alla giornata dell’altro.