Nail Chiodo

Poesia finale

in forma di lettera d’addio
a parenti, amici e conoscenti

Non bisogna stupirsi, osservò Ludwig1,
quando qualcuno che non ha la chiave
per entrare nel testo di un autore
non ha nemmeno i mezzi per capire
ciò che quello vorrebbe preservare
da un’attenzione importuna e indiscreta.
La metrica può invogliare alla lettura
o scoraggiare: chi non ne è convinto
non potrà penetrare questi versi.
La privacy permessa dalle regole formali,
che impedisce un esame maldisposto,
è un vantaggio e un’opportunità
per la poesia di raggiungere lo scopo.

Prendete per esempio questo testo:
grazie a rime ed a ritmi un po’ incerti,
poche sillabe appena e perderà interesse
per esteti irriducibili e per inveterati
prosafondai. Il suo valore dipende
dall’effetto che avrà, non sulla gente
tarda a capire, ma sulla ristretta
minoranza convinta che c’è sempre
qualcosa d’importante e nuovo da imparare,
qualcosa che scopriamo solo grazie
al divagare dei pensieri e una poesia
errabonda dal principio alla fine
è il miglior modo per cominciare a farlo.

Io mi sono ammalato ed incontrerò presto
il mio creatore. Grazie al loro metro
rilassato, confido che i miei versi
parlino con franchezza in piena libertà,
senza avere timore che chi ascolta
non sia affatto d’accordo con il loro
spirito, e affido alla carta riflessioni
che spero interessanti e utili per chi
presterà loro il tempo e l’attenzione –
«… e intanto cercherò di non stonare».

«Cari parenti, amici e conoscenti»,
così comincia questa che è una lettera
di addio a chi ricordo e di me si ricorda:
una poesia che svela i miei pensieri
e sentimenti in merito alla mia dipartita;
e che – seppur di dubbia qualità
poetica – soddisfi qualche curiosità.

«Vi scrivo in piedi, una postura nuova
che è meno dolorosa per me che star seduto.
Ma non voglio addentrarmi nell’eziologia
della mia malattia, basti sapere che
colpisce le ossa, è in fase terminale
e si addice a un poeta che da tempo
ha iniziato a studiare i vari aspetti
che dal principio può assumere il dolore.

«Tranne un attacco di encefalite acuta
(tra i più strazianti mezzi di tortura
naturali, come avere una vite ficcata
nel cranio) avuto da bambino e per fortuna
prontamente curato dai dottori,
non ricordo altri dolori nei sessantadue
anni di una vita generosa.
Gran parte dei tormenti patiti fino a cinque
mesi fa erano di natura spirituale.
Più o meno tutti quelli nati da conflitti
interiori li ho trattati e trascritti.
E qui è bene finire la mia triste lezione
con quello che i recenti avvenimenti
m’hanno insegnato sull’intensità
che può raggiungere il dolore.

Una gran sofferenza fisica riesce sempre
a spazzar via tutte le preoccupazioni
che di solito riempiono la giornata d’un uomo:
se niente lo distrae, ha l’unico pensiero
di trovare un sollievo o di morire presto.
Tutti i modi di uccidersi una volta
impraticabili, sembrano all’improvviso
fattibili; le difficoltà tecniche, sparite
o liquidate con un’alzata di spalle.
Senza oppiacei, io ora non sarei
qui ancora in piedi a scrivervi una lunga
lettera di commiato.

Col loro aiuto posso
ancora aspirare alla virtù, a un’ideale “mens sana
in corpore moribundo”, all’uso migliore
del tempo che mi resta. Ma la tregua
con la morte, ben si sa, non può durare a lungo:
ne approfitto per trattare questioni personali:
di stile, gusto, valori che ne sono alla base.
Se aggiungere a un già lungo percorso
qualche altro passo è quello che gradite,
perfetto. Io preferisco prendere
in mano il mio destino e accorciare
questa vita e così chiudere il cerchio.
Naturalmente, vivo da solo e non ho figli.

«Mi scuso in anticipo della sorpresa
che il mio suicidio potrà provocare:
per me è d’oblige, ho provato a spiegarlo.
Credo più interessante come mi accingo a farlo –
non da solo, ma con l’aiuto di altri.
L’Incarico affidato alla poesia
mi stimola, ma rendere giustizia
alla squadra in questione non è facile.
Va da sé che farò tutto il mio meglio.

«Aiutandomi a morire, hanno probabilmente
salvato la mia vita da una sopravvivenza
indecorosa lasciata in mano a estranei –
e infine dall’usare un coltello su me
stesso, pasticciando miseramente!
Da tutto questo nasce il loro impegno
per una morte dignitosa. È difficile
non apprezzarlo, sapendo di che si tratta.
Non serve essere in punto di morte
per sapere come operano e dove
e perché, e sostenere la loro associazione
per la salute dell’ultimo momento.
Andate al loro sito www.dignitas.ch
riflettendo sul futuro, e su quel che potrebbe
riservarvi. Il rispetto delle volontà
del paziente e la riservatezza che offrono
meritano appoggio anche quando la morte
non sembra ancora dietro l’angolo.

«Ma ora basta parlare della morte!
Ho paura che i parenti mi rinneghino,
gli amici mi disconoscano e i conoscenti
sogghignino quando pensano a me!
Da cosa sto partendo, e non come o per dove
– col cuore e con la mente – sto partendo
è il vero nodo di questa lettera. Non dico
dal mondo là fuori, quel grande casino,
ma da tutti coloro che mi stanno a cuore.
M’è impossibile scrivere ad ognuno,
ché sono troppi e avrei troppo da dire.
Dovranno bastare i contatti quotidiani
che abbiamo avuto, le cose condivise.

«Questa lettera d’addio con rime occasionali
io spero che compensi in qualche modo
il fatto che, accadendo tutto in fretta,
io non riesca a incontrare un’ultima volta
neanche quelli di voi più a portata di mano.
Confido che crediate al dispiacere
che provo non potendo più guardarvi
negli occhi e controllandomi per quanto
possibile non cedere a singhiozzi o sospiri;
ma, soprattutto, senza poter scambiare
una cordiale stretta di mano, come
nelle scene raffigurate sui bassorilievi
delle antiche stele funerarie greche.

«Ho iniziato dicendo che vi scrivevo in piedi,
una postura che in effetti mi resta
più comoda di altre giusto mentre
m’avvicino alla fine delle mie divagazioni.
Tutte le mie poesie prima di questa
le ho scritte da disteso. Una signora
austriaca ha suggerito che dovendo
farmi una statua sarebbe più fedele
al suo soggetto se lo mostrasse a letto.
Lei l’ha detto – benedetta sia l’anima gentile! –
con ironia, però è una buona idea
e, francamente, se fosse un umorista
scultore a realizzarla, non avrei obiezioni
che mi si celebrasse in questo modo.

«Ecco, miei cari, il tempo di partire è arrivato.
Questa poesia errabonda sia pegno del commiato».


  1. Ludwig Wittgenstein